Caro Presidente Napolitano

Caro Presidente Napolitano,
Le scrivo dopo aver ascoltato (2 volte) il suo discorso e averne volutamente osservato contenuti, reazioni e sotto significati.
Le scrivo, con tutta onestà dicendole come prima cosa che anche io, come Lei credo, mi auspicavo una sua NON rielezione, che si è resa necessaria purtroppo a causa, ancora una volta, di questa sciagurata classe politica che aimè rappresenta, a mio avviso, lo spaccato perfetto del paese.
Una classe politica che credo, e lo dico con profondo rammarico, abbia avuto non poche difficoltà a capirla, nel senso letterale della parola.

Caro Presidente, il suo discorso, può annoverarsi tra uno dei più bei discorsi politici che io abbia mai ascoltato, e mi sono stupida della complessità dialettica e sintattica usata, che sì imponeva certamente la situazione e il luogo, ma che ormai pare sepolta sotto cumuli e cumuli di linguaggio corrente e totale assenza di sentimenti quali dignità, senso del dovere, orgoglio, e rispetto che lei invece così bene impersonifica.



Ho assistito inerme e con profonda commozione alle “crepe immaginarie” che causavano lo sgretolarsi delle mura di Montecitorio, ad ogni suo poderoso passaggio, a significare come Lei e il resto dei presenti foste su mondi opposti.


Come lei stesso ha dichiarato infatti il suo intento è  “mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese “ ed è già qui che lo scollamento tra lei e tutti i presenti è iniziato con una leggera crepa verticale. Le sorti del paese…la sorte, il destino, la meta finale dell’Italia intera, che nessuno vede e prevede e sicuramente che nessuno dei presenti al suo discorso ha a cuore.

Proseguendo ha tenuto a precisare come… “quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Ne propongo una rapida sintesi, una sommaria rassegna. Negli ultimi anni, a esigenze fondate e domande pressanti di riforma delle istituzioni e di rinnovamento della politica e dei partiti – che si sono intrecciate con un’acuta crisi finanziaria, con una pesante recessione, con un crescente malessere sociale – non si sono date soluzioni soddisfacenti : hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi.
Inutile che mi soffermi sull’inadeguatezza degli applausi (da lei per altro “rimproverati” in seguito) di un’intera classe dirigente che nella testa volto e sorriso o, peggio ancora ghigno, accusava il vicino e dimenticava se stessa. 
Caro Presidente è proprio in quel momento che nella mia mente gli scranni dell’aula hanno preso fuoco e le lacrime di rabbia e orrore hanno iniziato a scendere.
Mentre lei con grande caparbietà rimproverava tutti, quei tutti ignari del suo talento dialettico e incapaci di capirla (perché senza capacità, senza talento, senza coscienza, senza amore alcuno)  si lavavano la coscienza, scaricavano il barile- mi perdoni l’espressione – sul vicino di banco.

Proseguiva il suo discorso con parole quali “imperdonabile, sordità” ed ogni passaggio, duro e incofutabilmente chiarissimo, veniva stravolto, e vanificato dai continui batter di mani e da cenni di assenso e conferma di tutti, all’unisono.
Così come il figlio “sordo” delle direttive paterne, annuisce per obbligo, nella speranza che la ramanzina finisca presto.
Ancora crepe sui muri dell’aula nella mia mente, con la visione di un soffitto sempre più basso e instabile.

“E’ la questione della prospettiva di futuro per un’intera generazione, è la questione di un’effettiva e piena valorizzazione delle risorse e delle energie femminili. Non possiamo restare indifferenti dinanzi a costruttori di impresa e lavoratori che giungono a gesti disperati, a giovani che si perdono, a donne che vivono come inaccettabile la loro emarginazione o subalternità.”
La prospettiva di futuro, ormai infranta devo aggiungere, di una intera generazione, la mia, che va avanti, precariamente, e crea famiglie, senza futuro, ma con un solo scopo:
la felicità presente e il vivere nell’oggi.
Mentre Lei parlava, e Loro applaudivano, e mentre due decenni come Lei ricordava sono passati senza un nulla di fatto, una sola e unica verità è rimasta: la parola Domani è scomparsa dal vocabolario di chi come me oggi ha 30 anni.
Ancora una crepa nella mia mente sulla parete di destra.


E poi ancora ” Apprezzo l’impegno con cui il movimento largamente premiato dal corpo elettorale come nuovo attore politico-parlamentare ha mostrato di volersi impegnare alla Camera e al Senato, guadagnandovi il peso e l’influenza che gli spetta : quella è la strada di una feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento.”
Ed è sull’ultimo passaggio che l’aula è esplosa, addirittura in piedi, fatta eccezione per i redarguiti, interprentando a suo unico vantaggio questa raccomandazione, felice di poter ribadire chi è un parvenu e chi invece è lì da sempre, da troppo vorrei aggiungere.
Eccoli, mentre lei prosegue, scambiarsi tra di loro sguardi di intesa.
Monelli tra monelli, bambini tra bambini, imbecilli tra imbecilli: “hai visto? li ha sgridati. Così si imparano a voler giocare a nascondino con noi e a voler cambiare le nostre regole”
Che rabbia presidente, che oddio, che prurito alle mani.
Quel prurito che si tramutava in sonoro e sacrosanto ceffone fino a qualche decennio fa e che io, forse complice una famiglia di stampo antico, ho conosciuto molto bene.

Sulla base dei risultati elettorali – di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no – non c’è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto – se si preferisce questa espressione – si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale.”
Il silenzio, il gelo, a questo passaggio così difficile per quelle teste così concentrate su se stesse e sul mantenimento dello status quo. O anche per una lettura più profonda, l’impossibilità di andar oltre il proprio tornaconto, la propria visione, per dar vita a “intese più ampie” che esulino da meri interessi singoli. L’inadeguatezza totale, per una totale mancanza di visione, per una assenza ingiustificata di vocabolario, dove le parole responsabilità e istituzionale non trovano in nessun modo una forma di appartenenza comune ne di vicinanza.

Ancora crepe nella mia mente.

E poi i passaggi finali “Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione…auspicando che fosse finalmente vicino “il tempo della maturità per la democrazia dell’alternanza” e qui, l’equivoco evidente nella mente dei presenti che li ha visti sorridere, annuire, farsi l’occhiolino, quasi a voler istituzionalizzare quello che nel resto d’Europa ha un così diverso significato.
La parola intesa, alleanza e convergenza hanno assunto nella lingua italiana ormai un’accezione unicamente e senza ombra di dubbio, negativa.
Perché l’esperienza, la storia, i fatti, la realtà ci insegnano che l’intesa italiana, l’alleanza italiana, e la convergenza italiana esplodono e si concretizzano, solo e unicamente quando la frase si chiude con l’aggettivo sottinteso PERSONALE. 
E’ la persona che esprime la parola o le parole stesse che ne trarrà vantaggio, ne uno in più, ne uno in meno.
Ecco perché caro Presidente, l’applauso era così fragoroso. Perché l’interpretazione era personale, personalistica, egoistica o se preferisce, disgustosamente BASTARDA.

E qui la mia testa e i miei occhi hanno visualizzato la scena finale, l’Apocalisse. 
Il fragore inconfondibile del cedimento del legno, il soffitto dell’aula che inizia a perdere pezzi e alla fine al suono di Viva il Parlamento! Viva la Repubblica! Viva l’Italia!” il boato finale e il crollo definitivo di Montecitorio, imploso, su se stesso, sotto il bombardamento di parole scomparse, di sentimenti inesistenti, di capacità perdute.

Caro Presidente Napolitano, non si preoccupi, nella mia visione ad occhi aperti lei non è morto in quell’aula, ma la distanza (non solo anagrafica come da lei citata) tra le sue parole e il loro vero, reale, unico, significato, sì.
Le sue parole, il suo discorso, è morto, come muore la ramanzina di padre per il figlio che ha preso 4 a scuola.
Solo che questa volta il voto era 0 spaccato e che l’unica possibile sorte (destino e destinazione finale del paese) è la bocciatura.

Caro Presidente Napolitano, le faccio i miei più sentiti auguri per questo nuovo incarico, la ringrazio in ogni caso per le bellissime parole pronunciate ieri, che sono sicura gli italiani fatta eccezione per i presenti in aula, hanno capito e apprezzato. E concludo dicendole che spero con tutte le miei forze che questa mia visione, e questa mia previsione si rivelino del tutto sbagliate e infondate. E che chi vede il bicchiere mezzo pieno possa dirmi presto con aria di rivalsa: “vedi? te l’avevo detto io”.
Ancora auguri Presidente.