365 giorni fa…

Non sapevo cosa fosse un Coronavirus, quanto puzzano le mascherine chirurgiche, e non sapevo che ne esistessero di vari tipi, non sapevo cosa fosse L’RT né una curva epidemiologica.

365 giorni fa, non sapevo usare la piallatrice, non sapevo lavorare il legno, non sapevo di ricordare ancora l’analisi grammaticale tanto da insegnarla a mio figlio ma sapevo che la pazienza non è tra le mie doti.

365 giorni fa sapevo di avere un carattere di merda, e pensavo che quel carattere mi avrebbe salvata quando la merda sarebbe arrivata al collo. Sbagliavo.

Ci ripetono ossessivamente che siamo all’ultimo miglio, all’ultimo tratto di tunnel. Ma siamo tutti cosapevoli che ci stanno prendendo per il culo. Lo vede chiunque che oggi è il covid 19, domani sarà XCTR.

Sarà il 20 ennio delle pandemie, amplificate da morbose descrizioni e immagini di malati sui social media; malati mostrati senza alcun rispetto al mondo intero. Giornalisti invitati e inviati ancora oggi dopo 365 giorni nei reparti del dolore a sezionare i sintomi di chi suo malgrado forse non ce la farà. Senza alcun rispetto per la dignità del malato, nel nome di non si sa quale diritto di buttare in piazza un dramma senza precedenti.

Un racconto indegno, masochistico e immorale del dolore, del dramma. La tv del dolore. Solo che questo è un dolore che ci travolge tutti.

Il progresso, la globalizzazione, il movimento di noi tutti, ci ha presentato il conto. Ci ha tolto la libertà di muoverci, di respisrare, di viaggiare, di lavorare di sorridere, di cenare, senza morire o peggio senza rischiare di far morire chi ci sta accanto. Siamo tornati indietro nei secoli, dove se ti muovi, se stai fuori, rischi.

365 giorni di questa merda mi hanno ricordato e dato prova che l’uomo (in senso di maschio) davanti al dramma, al panico e all’imprevisto, salvo rare eccezioni, si paralizza. E il potere che detiene da secoli, e le posizioni di dominio che sfrutta, gli si sgretolano tra le mani, in un altalena perenne tra inadegutezza di chi non sa chiedere aiuto e supermachismo di chi pensa di poter sfidare il mondo, per ritrovarsi poi comunque dalla stessa parte. Dalla parte di chi ha fallito.

Che poi riducendo la faccenda ai minimi termini è sempre la stessa scena: noi che dobbiamo partorire i loro figli e loro che svengono.

365 giorni fa sapevo di avere amiche con le spalle larghe, adesso so che tutto possono. Sia quelle fuori dagli schemi sia quelle che sembra stiano seguendo una linea retta. Che poi la linea retta è solo una sensazione.

365 giorni non c’èra la Bertè che magistralmente riassumeva così il senso di tutto:

Sono il padre delle mie carezze e la mia madre delle mie sperienze, sono figlia di una certa di fama…sono una figlia di Lorendana…. col MASCARA e la Bandana… Tu che giudichi il mio cammino, prova a farlo su questi tacchi.”

Lettera di Compleanno – N.12

La Musica, la musica è definitavamente il tuo modo di esprimerti.

Canti, canti e ascolti musica – con il mio Ipod antidiluviano, un enorme paio di cuffie bose o con il vecchissimo giradischi di papà. Canticchi mentre giochi da solo e canticchi il pomeriggio a scuola, invece di stare attento in classe. E prendi note sul registro, ma continui a canticchiare. A chiedere Musica, appena entriamo in macchina, a chiedere il telefono “solo per una canzone mamma, non per i videogiochi “. Perché hai capito che sì, la musica sul telefono è permessa, sempre, non sarà mai no.

Ascolti le tue canzoni, e anche quelle che ti faccio ascoltare io. La musica, e la memoria che hai per i testi è credo, l’unica cosa che mi ricorda che sei mio figlio. Per il resto chissà, non lo so, in questo strambo anno, a contatto 24 ore su 24 tutti i giorni, senza soluzione di continuità, non so più nulla.

Sono stata negli ultimi mesi mamma e maestra e tata e cuoca e insegnate e intrattenitrice ma soprattutto urlatrice e carceriere. E arrabbiata, e triste, e tu con me, ricordandomi tutti i giorni che niente e nessuno possono cambiarti. Neanche una pandemia mondiale.

E’ dicembre, di nuovo, sei in seconda elementare senza aver fatto la prima e senza cognizione di causa si pretende – noi adulti – che tu sappia leggere e scrivere e stare seduto 8 ore al giorno. E’ di nuovo dicembre, venerdì hai compiuto 7 anni e nonostante l’anno folle e la follia di tutto questo sei rimasto immobile, piantato sulle tue convizioni sulle tue prese di coscienza sulle tue assolute e inamovibili verità.

I bambini si adattano meglio di tutti”. Così dicono gli esperti, i qualunquisti in tv, i ministri incapaci di amministrare. “I bambini sono stati eroi” proseguono. Parole al vento di chi con buone probabilità figli non ne ha. Tu invece qui davanti a me sei la rappresentazione vivente di come no non è vero niente. Perché stavolta adattarsi vuol dire arrendersi.

Così Guelfo, amore mio, quest’anno è tua mamma che ti dice Grazie.

Grazie per il tuo perenne masticare la mascherina, quasi fosse una Big Babol. Ricordandomi che no, non ci si abitua e non hai nessuna intentione di farlo, perché ti dà fastidio, perché portarla fa schifo.

Grazie per quel gesto di insofferenza che fai tenendola poco, male e storta e sporca. Infastidendo tutti, e ignorando i rimproveri che ricevi.

Grazie perchè dopo mesi, ancora ti rifiuti di rispettare qualsivoglia regola Anti Covid – Distanziamento, pulizia, lavarsi le mani evitare gli abbracci. Te freghi nonostante tutti intorno a te continuino a ricordarti che è PERICOLOSO. Tu niente, come se non fosse un problema tuo.

Grazie per avermi tenuta occupata molto più del solito, senza di te non ce l’avrei mai fatta. Sarei crollata al giorno 3. Stravolta dalla tua atavica impossibilità di adeguarti alle circostanze, mi hai forzato a vedere le cose dalla giusta prospettiva. La tua. A fare le scelte meno scontate e più faticose, per te.

Ci guardiamo spesso con papà, a volte io stramazzo sul letto affranta ma in fondo sappiamo che, se non dovessi finire in galera, credo la vita ti sorriderà spesso.

Ti lascio qui sotto una canzone che fa per te. C’è una strofa che ascolto spesso, e quella strofa – inclusa la zeppola – quella strofa sei tu:

E hai disegnato a colori il mondo che hai immaginato

Te ne vai in giro a fare tentativi, finché non avrà combaciato

E fai il lavoro sporco per non far finta di essere pulito

Hai qualche super potere da usare contro il nemico

Masticando una gomma al sapore di infinito

Che non finisce mai, che non finisce mai, non so se si è capito

Gli Immortali – Jovanotti

Auguri Amore mio Immortale.

Mamma

Fuori Sinc – Lettera a me stessa per i 40 anni.

Lettera a me stessa.

Mia cara, che dire, i primi 40 sono andati un pò così, a caxxo. Drammaticamente FuoriSinc, in ogni fase della tua ormai non più breve vita. Perennemente fuori posto, costantemente fuori moda, mai per scelta ma solo per l’atavica incapacità di raggiungere il passo altrui. Che alla fine sembrava quasi fatto di proposito, invece è stata solo inadeguatezza.

Così, impaurita dalla corsa e conscia della concorrenza agguerrita, hai inziato a correre in direzione opposta fin da adolescente. Vigliacca.

A guardala dal gradino dei 40 solo una può essere la difinizione di te: la grande fuga. I veri eroi , ora lo sai, sono quelli che ce la mettono tutta per percorrere la strada che hanno davanti. Quel rettilineo a 4 corsie che sembra tanto facile da percorrere e che invece richiede, costanza, forza di volontà, preparazione, concentrazione, abnegazione. Tutte cose che tu non hai mai avuto. Troppa fatica.

Sei uscita al primo casello, senza neanche pagare il pedaggio. Hai preso le strade non battute dalle “migliori”, e scelto invece le provinciali tutte curve nascondendoti nei paesini dimenticati, dedita per lo più a guardare gli altri giocare a scacchi. Indecisa se tornare indietro, perchè incastrata dal senso di colpa e dalla voglia di conformarti, o se guardare cosa ci fosse dopo la curva successiva.

Pochi uomini, poche amiche. E lì scappando con fatica hai trovato il tuo modo di vivere, hai fatto pace con le tue debolezze, non tutte, ma molte sì. Hai scoperto che si può vivere molto bene senza competizione, che si può accettare anche di non “gareggiare”.

Ma ignorare la gara non è sempre facile. A volte succede che agli incroci incontri qualcuna che era vicino a te ai blocchi di partenza; ha fatto meglio, non c’è altro modo di dirlo. Ha fatto meglio di te, ha scelto la strada difficile e alla fine è stata premiata. Accettare la sconfitta è sempre molto complesso.

La curva dell’estetica sta inziando ormai a sfiorire ma considerando che nel bene e nel male non ti è mai stata di grande aiuto, datti una pacca sulla spalla, non te ne sei mai presa più di tanto cura. Se anche il tempo ad oggi sembra essere stato abbastanza clemente, quello speso a specchiarti e curarti non te lo avrebbe ridato nessuno. L’hai usato in altro modo e questo ti fa onore.

Dicono, mia cara che a 40 finalmente si abbia consapevolezza di se stesse, si sappia dove andare e cosa volere dalla vita. Beati quelli che lo dicono, che lo pensano, che tu ancora cammini incerta tutte le mattine.

Sogni ad occhi aperti – esattamente come 20 anni fa – di fare la reporter, l’attrice, il presidente del consiglio, l’amministratore delegato, l’insegnate di yoga a Bali, la travel blogger, l’imprenditrice, la proprietaria di un negozio bio, la maestra di sci. E tutte le mattine ti meravigli del fatto che i tuoi figli siano ancora vivi, e LUI, inspiegabilemnte ancora sdraiato accanto a te.

Dicono che a 40 anni, tutto sia chiaro, mentre tu continui a galleggiare sopra i giorni che passano, a volte felici a volte meno, ma sicuramente senza contezza, senza chiarezza, senza una visione.

Così, mia cara me, eccoci arrivati, in cronico ritardo, agli auguri per gli anni a venire:

Che gli amici e le amiche restino poche – che averne tanti non seresti capace a gestirli.

Che in questo mondo di numeri uno, di gente con uno scopo, con una visione, con figli perfetti e vite perfette e carriere avviate, tu possa rimanere abbastanza distante da non farti contagiare ma abbastanza vicino da imparare sempre qualcosa di nuovo.

Che lo scopo e la chiarezza non ti raggiungano mai, che con il caratteraccio che ti ritrovi, diveterebbero le tue indiscutibili e grandi verità, e lì sì che avresti un problema.

Che i figli continuino a crescere, lasciandoti ogni giorno un centimetro in più di spazio, per tornare un giorno ad avere di nuovo tutto il tempo che vuoi.

Che ci sia poco sport, molti libri, cibo e vino. Sopra ogni altra cosa però, un’infinità di biglietti aerei, possibilmente per due, a riempire un nuovo scatolone dei ricordi, perché in fondo – questo lo sai – il tuo scopo è solo quello di andare a conoscere il mondo.

The Answer My Friend…

Ieri sera c’era un vento impressionante, di quelli che sconquassano tutto e non ti fanno dormire, come avessi l’impressione che da un momento all’altro il tetto di casa possa venir via e tu, volare su con tanto di letto, cuscini e camica da notte.

Ero sveglia e pigramente come accade troppo spesso ormai, invece di leggere un libro guardavo Instagram. Lobotomizzata davanti a immagini banali di mare, sole, vento, amici che intasano i server di questo mondo e che io stessa contribuisco a generare, per un banale senso di vanagloria che ormai , pare, non ci abbandonerà più.

Mentre le stories si susseguivano con mari blu, pubblicità di costumi, tuffi, publicità di creme, bambini con gelati, pubblicità di ville di lusso (l’algoritmo di IG ha una pessima opinione di me) Bob Dylan è venuto in mio soccorso.

15″ di ritornello accostati magistralmente o per puro caso a una scena talmente reale e non patinata da sembrare finta.

Un’amaca (posto singolo) ruota e volteggia spinta dal vento sotto a un patio di campagna. Prende il centro della scena e il suo movimento non regolare e non prevedibile ti cattura gli occhi. La stoffa ha le righe colorate, non simmetriche, non sequenziali, Bob in sottofondo dice che la risposta a tutto è nel vento. E questo basterebbe a descrivere il tutto.

In realtà a me l’occhio è caduto su quello che c’è “dietro”:

Sul prato oltre il pergolato – bruciato dal sole e giallo – come dovrebbero essere i prati in questo periodo dell’anno. Non verde Inghilterra grazie a sistemi di irrigazione ben programmati.

Sul tavolo in legno, che non è di design, è lì, semplice, un tavolo da giardino con le due panche attaccate, di quelli che ci stai anche un pò scomodo.

Sullo sfondo di un cielo pieno di nuvole. Nuvole normali non rosse, non nere non belle, solo nuvole.

E sulla vita che in quei 15″ di Bob c’è.

In lontananza si intravede, coperta dall’amaca che oscilla e da una siepe, una strada sterrata; disegna una curva da destra a sinistra e un breve rettilineo che arriva alla casa.

Lì in fondo alla scena, nell’angolo destro del mio cellulare, appare un’auto e fa quell’effetto polverone che da bambini ci piaceva tanto. Bob ha appena finito di dire dove trovare la risposta – nel vento – l’auto ha già percorso tre quarti della curva, e in quel preciso istante appare di spalle una bambina piccola, con gonna rosa pallido; sembra tulle o goergette, è a torso nudo e i capelli castani le finiscono in faccia.

Per un istante è lei davanti all’amaca, è lei nell’inquadratura principale, per un istante, l’auto che arriva alzando un gran polverone e lei con la gonna che si muove e i capelli fastidiosamente sugli occhi , lei che entra in scena e in un secondo scompare… per un attimo sono loro la risposta.

Riguardo la scena un paio di volte e poi scrivo a chi l’ha pubblicata:

Gli chiedo se ha avuto culo o se l’ha girata 15 volte per ottenere quella perfezione.

Lui ride, perché ho notato solo i dettali. Rido anche io scrivendo:”Gli intelligenti e i capaci guardano l’amaca che gira… per fortuna – a noi – non è capitata questa sciagura nella vita.”

The Answer my friend, is blowing in the wind, the Answer is blowing in the wind.


Grazie G. per i 15″ di poesia reale. Che del mare blu e dei gelati, ne abbiamo le palle piene.

Lettera di compleanno N.11

Zeno,

Che anno assurdo.

Ho riletto poco fa gli auguri fatti a te lo scorso anno. Ti auguravo un anno “complesso” pieno di scoperte e bellezze. Si è traformato in un anno complicato. Non era quello che intendevo.

Ti scrivo dalla hall di un bell’albergo dove per caso e per fortuna abbiamo passato ieri il tuo compleanno.

Un anno sospeso a metà. Non torniamo a casa nostra da 6 mesi, raminghi io te papà e tuo fratello piccolo, mi sembra siamo diventati un tutt’uno. Che si muove in modo complesso e simbiotico come mai avrei pensato, e voluto.

Una convivenza prolungata e forzata che ci ha reso tutti più vulnerabili e più forti allo stesso tempo. Sei adulto, più di quanto vorrei, nel modo in cui proteggi i sentimenti altrui. Attento a non ferirli e per questo pronto a rinunciare ai tuoi di desideri. E sei bambino, più di quanto vorresti, nel modo in cui non riesci a perdere, neanche a ruba bandiera.

Sei adulto, mentre guidi un motorino o un trattorino, o vai in giro solo per la campagna e su una deriva in mare. E sei bambino mentre ti appoggi alle spalle di tuo fratello grande perchè non ce la fai più a nuotare in mezzo al mare della corsica.

Abbiamo cercato, papà ed io, di proteggerti da tutto questo disastro, e da tutte queste paure che hanno colpito noi grandi negli ultimi mesi. Così un pò per divertimento un pò per poca fantasia abbiamo cercato di replicare la nostra di infanzia. Fatta di tiro alla fune, corsa con i sacchi, gioco della sedia. Fatta di ginocchia sbucciate in bici, e partite di tennis contro il muro.

E mentre ti insegnavamo giochi vecchi, e lenti, ci hai costretto a fare i conti con la vita, che è volata via in un attimo, e con te grande.

Siamo oggi tutti più fragili, e questo, credo ci abbia avvicinato. Mi chiedi a volte se sono triste, rispondo sempre no ma a volte ti dico che sono solo preoccupata. Hai fatto un passo avanti negli ultimi mesi, adesso chiedi il perché delle mie preoccupazioni.

Doveva essere la tua quarta elementare, è stato lockdown.

Mi dispice se non ho saputo proteggerti abbastanza, se a volte mi ha visto vacillare. Tu lo so, ricorderai tutto questo per sempre e credo, come molti genitori di non essere stata all’altezza.

Il mare, il sole e questi giorni con i cugini ti hanno però ridato quel sorrisso speciale.

E vengo ai miei auguri: che tu possa per il prossimo anno godere ancora di un pò di spensieratezza, lontano dalle bruttezze del mondo, e lontano dalla tristezza del mondo che questi mesi hai visto.

Che tu possa avere un anno normale, nioso, ripetitivo fino allo stremo. Che tu possa annoiarti a scuola, a casa, al parco, facendo capricci e lamentandoti tantissimo della normalità.

Che sia il prossimo anno per tutti noi e per te un rottura di scatole infinita, tra compiti, monotone routine e nessuna nessuna variabile differente.

Auguri amore mio, e perdona la tua mamma che sicuramente ha fatto un gran casino negli ultimi 6 mesi.

Ora la chiamano resilienza.

Resilienza

“…le parole sono importanti, hanno il loro peso specifico, hanno una storia e vanno usate con criterio”

Concludo sempre così la mia personale filippica ai due nani quando per farsi grandi usano parolacce nei loro discorsi. La parte inziale è un grande classico della letteratura materna anni ’80: un ceffone se la parola è davvero grossa, uno sguardo fulmineo invece se è roba ti poco conto e l’incipit di chi li vuole far sentire in colpa i propri figli: ” lo sai chi usa le perolacce?”

La risposta arriva in coro: ” gli stupidi che non sanno esprimersi.”

Le parole sono importanti, hanno il loro peso specifico, hanno usa storia e vanno usate correttamente.

Va di moda la Resilienza da un pò. Ma adesso nel post-covid – che è Post solo in Italia visto che nel nel resto del mondo il picco è lontano – la resilienza è diventa la parola da usare in ogni frase e contesto.

Vorrei , prima di tutto, porre l’attenzione sul fatto che – non a caso – la Resilienza è femmina:

“Resilienza/re·si·lièn·za/sostantivo femminile

  1. Capacità di un materiale di assorbire un urto senza rompersi.
  2. .In psicologia, la capacità di far fronte in maniera positiva a eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità positive che la vita offre, senza alienare la propria identità.

“Sono persone resilienti quelle che, immerse in circostanze avverse, riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni previsione, a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e persino a raggiungere mete importanti.” wikipedia dice così.

Arrivo dunque alla polemica del giorno. La Resilienza tanto citata è oggi nelle bocche di tutti, ma soprattutto di quella classe socio economica che tutto ha e sa, tranne davvero cosa voglia dire essere Resilienti.

Lo sento nei discorsi delle spiagge Radical Chic in bocca a uomini 40, 50 enni, residenti all’estero da quando ne ho adulta memoria, rimpartiati per l’occasione pandemica nelle loro villa Italiane. La loro resilienza, usata a sproposito per indicare la volontà di rifugiarsi nei borghi italiani (ma solo previa grosso miglioramento da parte dello stato italiano di connessioni e strade) e fuggire le caotiche città europee dove hanno cresciuto i loro figli.

La sento la resilienza, citata a casaccio per dire che ancora non ci sono programmi specifici per le vacanze di natale, che sai…”dobbiamo essere resilienti…”

La povera resilienza, confinata sulle spiagge del litorale toscano, e nei bei ristornati delle alpi che nauseabonda cerca di dirigersi da chi reliente lo è stato e lo sarà veramente.

Resilienti sono coloro che dai Borghi Italici non sono mai fuggiti, e non per mancanza di oppurtunità, ma per scelta. Che la vita luci e colori Londinese – Parigina non li ha travolti e ammaliati. Coloro i quali la bottega artigianale, e il cibo sano e la vita lenta, e sì spesso noiosa, dei piccoli posti l’hanno scelta da prima. Non dopo, aver fatto una scopracciata di caos e virus.

Resilienti sono i ragazzi del sud Italia che si inventano un lavoro onesto e restano al loro territorio, per proteggerlo e migliorarlo.

Resilienti sono coloro che in questo mondo ammalato aiutano convertendo le loro piccole produzioni, che fanno i volontari. Resilienti sono coloro che indossano una marcherina anche adescco che è estate, e che sono al mare, per rispetto di chi ha combattuto e non ce l’ha fatta.

Resilienti sono le donne di questo triste paese, come lo è la parola stessa.

Speriamo che il prossimo maschio bianco che cerca di pronunciare la parola a sporopsito si trozzi a tal punto da non volerma dire mai più.

Che la Resilienza è una parola di quelle importanti, e con un peso specifico che noi, quasi tutti, me compresa, non abbiamo idea di cosa significhi davvero.

L’Italia è morta, senza neanche un funerale.

Malata, da quando ne ho adulta memoria questa bella penisola, ormai neanche più tanto bella, in pochi mesi è morta definitivamente. Nel silenzio del suo popolo analfabeta e della peggior classe politica esistente tra le democrazie occidentali. Morta definitivamente di inerzia, vecchiaia e Cancro.

I medici (imprenditori), e gli infermieri (lavoratori) hanno fatto il possibile per salvarla, ma a nulla è valso il loro sforzo davanti alla completa incapacità di arginare un tumore con metastasi ormai espanse a tutti gli apparti e organi.

Partiamo dal cervello- governo, che da anni ormai è in totale assenza di sinapsi buone che siano capaci di fare il loro lavoro e popolato altresì da cellule malate, malsane, egoriferite, impreparate a trovare di comune accordo una linea guida per la comunicazione agli altri organi.

Passiamo poi per il sangue infetto che circola gonfio di droghe quali curruzione, burocrazia, miopia; sangue che ha finito di infettare, con la sua boria, con la sua incuria, con la sua mancanza di umiltà, preparazione, dignità anche tutte le parti del corpo d’Italia.

Finiamo quindi con una semplice frase: in Italia non funziona niente. Ma proprio niente.

Lo stato non c’è e quando c’è, meglio averne paura. La cultura è morta, anche quella, dimenticata, perché ormai vecchia. Ignorata, l’italica cultura, da tutti i paesi del mondo.

Le donne in Italia vengono uccise – quasi sempre in famiglia – come fossero carne da macello. Umiliate quando vanno al lavoro dove spesso vengono molestate, e se non vengono molestate vengono pagate comunque meno. Non hanno quasi mai accesso ai piani alti, e se arrivano ai piani alti non hanno potere decisionale, e se riescono per miracolo a prendere decisioni, poi non vengono ascoltate.

I bambini sono poi l’ultima ruota del carro. Non hanno una scuola dignitosa, non hanno insegnati qualificati, per loro non viene speso neanche un terzo di quello che spendono gli altri Paesi occidentali. Così si ritrovano, i bambini, senza una scuola decente, senza uno stato che li tuteli, con le mamme a casa come 100 anni fa e non istruiti.

Guardano una televisione dove le femmine sono cose, così le bambine desiderano diventare culo e tette, e i maschi sposare un culo e delle tette, possibilmente entrambe, ma va bene anche una delle due cose.

E’ morta l’Italia anche oggi: la scuola non partirà in anticipo come era doveroso fare e avrà i fondi sì aggiuntivi ma mai quanto quelli destinati invece a salvare ancora una volta Alitalia. È di questi giorni anche lo scandalo nella magistratura con poche compite parole del presidente Mattarella che povero, ma che deve dire ormai. Salta anche il taglio dei vitalizzi, sempre notizia di oggi.

E’ morta l’Italia per sempre, e noi con lei, babbei ancorati dietro una quotidianità perduta, senza il coraggio di imbracciare non dico un fucile, ma neanche un cartellone. Non c’è neanche da piangerla l’Italia morta, che poi, ma quando mai è stato un paese per bene? Mai, solo che prima, non usava dirlo.

Diceva il bisnonno: non farti, mia cara, soverchie illusioni.

Lo diceva bello, ma il succo quello è. Non ci sarà rinascita, perché l’Italia e noi italiani, siamo feccia. Speriamo i miei figli scappino al più presto.

Lezioni da quarantena

Son qui che quardo questo foglio bianco e penso che qualcosa da tutta questa esperienza dovrei aver imparato. Lezioni da quarantena. Invece mio malgrado mi trovo perfettamente d’accordo con chi un cervello più importante del mio ce l’ha, Massimo Cacciari, che ieri – o non so più quando – si scagliava contro questa mostruisità del buonismo ottimismo, del prendiamo il lato positivo della faccenda che popola la rete.

Il marketing di se stessi

Spiegatemi – ve ne prego – il lato positivo, del mondo chiuso in casa; il lato positivo di me e anche di te che leggi, privati di tutte le libertà, privati della possibilità di uscire, di lavorare, di scegliere una qualsiasi cosa. Dove sta il lato positivo dei bambini che non vanno a scuola? Dei bambini che sono chiusi nelle lore case terrorizzati che qualcosa possa succedergli?

Spiegatemi – ve ne prego – qual’è il lato positivo di sopperire a tutto questo dramma con corsi on line che prima non avevate mai fatto, e non per mancanza di tempo come dicono gli inguaribili ottimisti. Ragazzi su, non l’abbiamo mai fatto perché non ce ne fregava un cazzo di farlo; non abbiamo mai messo a posto casa perché preferivamo andare a bere una birra con gli amici piuttosto che buttare anche solo 10 minuti di vita a “mettere a posto”. Da quando mettere a posto è un occupazione piacevole? Possiamo paragonarla alla dichiarazione dei redditi come attività.

Spiegatemi – ve ne prego – qual’è la bellezza di questo tempo riappropriato, che riappropriato non è. Siamo chiusi, in carcere – non me ne vogliano i carcerati- senza libertà, cercando di riempire questo tempo che non si riempie mai. E di qualsiasi cosa lo stiate riempiendo, fosse anche la migliore letteratura Russa, questa non è una vostra scelta.

Il marketing di se stessi dicevo all’inizio della riflessione, dove annoiati e terrorizzati e intimiditi e abbrutiti cerchiamo in un like del prossimo l’approvazione, un conforto che ci dica: sei fico, sei ancora fico, sei in casa chiuso, non puoi scegliere dove andare, chi vedere, non puoi lavorare se non da solo e da dietro al tuo computer (se il tuo è un lavoro che si fa con il computer), ma non preoccuparti sei fico.

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Ansia da Prestazione.

Ho una domanda che mi risuona nella testa da un paio di giorni.

Non riesco a cancellarla, ad evitarla. E la domanda è: ma possibile che solo io sono immobile con il fiato corto a non far NIENTE?

No perchè vedo gente che cucina, vedo gente che fa ginnastica on line, vedo gente che fa aperitivi on line, chiamate di gruppo.

Vedo gente che studia, che legge, che mette in ordine , che partecia alle challenge su Instagram. Io sono ferma, immobile, paralizzata dal panico.

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Le lacrime delle 18.00

Tutti i giorni alle 18.00 mentre la protezione civile annuncia i morti, tutti i giorni c’è chi canta, c’è chi applaude, c’è chi suona. E’ un modo giusto, speciale, incredibile di farsi coraggio. Di sertirsi parte di qualcosa, un pò meno soli.

Le 18.00 sono diventate in pochi giorni l’ora più importante della giornata.

Io, che non sono coraggiosa, alle 18.00 da tre giorni inizio a piangere. La verità è che ricaccio indietro le lacrime più o meno tutte le volte che leggo il giornale durante il giorno. O tutte le volte che mi arrivano video dei nuovi eroi sui gruppi Wapp. Le ricaccio indietro ogni volta che mi arriva la notifica di una nuova richiesta fondi.

Ho silenziato il telefono 3 giorni fa.

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