Il treno della vita

Mio nonno materno, che non ho mai conosciuto, è stato un incredibile protagonista nella storia del giornalismo italiano, non lo dico io ovviamente, ma chi l’ha conosciuto e chi lo ha letto.

Non ho grandi notizie su di lui, e versioni cotroverse sulla sua proverbiale antipatia/simpatia. On line non si trova praticamente niente , perché nessuno della famiglia si è mai messo a digitalizzare quella montagna infinita di libri/carte/ articoli/ quadri che sono ad oggi stipati a casa dia mia madre, mia nonna e in quella che era la casa di mia zia Laura .

Ogni tanto però leggo qualcosa, non spesso per la verità. Una fotocopia annerita di quelche articolo preso quà e là e che poi puntualmente perdo. E capita che, al di là dell’italiano ormai in disuso, capita che qualcosa mi piaccia.

Così ho pensato che ogni tanto quel qualcosa dovrei trascriverlo qui ,nella sezione letture. Antipatico o Simpatico che fosse.  E per iniziare, partirò dalla fine. “Questo è l’ultimo articolo che Virgilio Lilli ha inviato al Corriere della Sera durante la malattia che lo ha portato alla morte.”

IL TRENO DELLA VITA

Provo una bizzarra sensazione in questa mia ultima malattia. Questa sensazione è che la mia vita sia stata un treno. E che io mi sia trovato sul  locomotore: il mio treno, lungo lungo, agganciato dietro. E che sul treno fosse caricata la mia intera esistenza: le mie robe, mie mie, solo mie, così mie, da confondersi, quasi con me stesso che stavo sul locomotore; così mie da potersi perfino chiamare “io”, come me, appunto, appollaiato lassù a guidare. Laggiù, negli ultimi vagoni del mio lunghissimo convoglio, ecco la mia natività, la mia puerizia, la fanciullezza, la mia famiglia di bambino; ecco mia madre giovane, ecco i fratelli; e poi la scuola, e poi i compagni, e poi le prime passioni della vita. E le scoperte: la scoperta di Dio, della morte, della donna, della cultura, della violenza, della guerra. E il lavoro. E mia moglie. E le amicizie, i compagni di lavoro, i viaggi, i libri, i quadri, i dolori, i figli, le felicità, le tragedie. Eccetera eccetera. 

Mi trovavo su quel treno che pareva non finisse mai; e io sempre affannato a guidare, sempre a rimettere il locomotore in moto verso il paese degli anni: Vent’anni, Trent’anni, Quaratanta, Cinquanta. Ero sul locomotore ma ero anche sul treno, a completare i carichi sui vagoni stracolmi: libri, quadri, scritti, necrologi, perdite di amici, la morte del padre, poi della madre. Croci, anche sul mio treno (sull”io” del mio treno). Il carico straripava, e ne arrivava sempre di nuovo: le rabbie politiche, gli odi, le antipatie, le simpatie. Le malattie, persino; e la pietà, gli slanci.

Avevo un fuochista sul locomotore: mia moglie, credo. Sessant’ Anni. In quel paese devo scrivere due, tre libri, far tre mostre, devo anche scendere dal locomotore e andare in paesi lontani; poi, ancora da quella stazione, riprendere la strada col treno sempre più carico della mia esistenza, ormai proprio gonfio di roba, di tutto.

Ed ecco, di colpo, sessantotto anni. Mia moglie, il fuochista, è scesa. Chissà dove sono i miei figli: chissà cosa fanno sul treno. Sul mio treno che non sento più mio. Tutta la mia vita era lì stipata, ammucchiata (ma anche ordinata) non l’avverto quasi più. Forse l’ho sognata, era una favola. Mi volto; il treno, dietro di me è scomparso. A una stazione intermedia devono averlo sganciato (lì deve essere scesa mia moglie): Anche il locomotore è diventato minuscolo, leggero come vetro. Correndo tiene appena le rotaie.

Dovrebbe essere notte ma i fari non occorrono più. Anzi mi viene incontro una luce grande e violenta, che mi fa piangere: brucia gli occhi e li inonda – letteralmente – di lacrime. Non posso abituarmi a questo bagliore. Fisso il locomotore, così vecchio e fragile. Per abitudine mi volto indietro, ma so che il treno non c’èpiù da un pezzo. Anzi mi pare che il mio locomotore, solo e leggero, stia salendo dietro la luce, come attratto da una calamita. La luce si fa più forte e violenta, mi fa piangere, piangere. 

Non era vera la vita. Anche il treno era una favola; favole la nascita, la fanciullezza, la guerra, il lavoro, l’odio, lamore, i vivi e i morti. Favole anche i miei sogni, come specchi nello specchio; e i miei libri, i miei quadri. Anche Dante, Beethoven, Raffaello, Leonardo, Michelangelo, il calcolo sulla resistenza dei materiali, la geometria analitica non erano veri. Sogni, sogni.  Io non ero”io”.

Non ho rimpianti (come potrei, se nulla è vero) non ho desideri. Vado, soltanto, verso questa luce: attratto – irresistibilmente – da questo fiammeggiante mistero. Lo conoscerò. Entrerò nella dimensione in cui i sensi non sono cinque, ma l’infinito. Vado a incontrare “IO”: esso prenderà concistenza attraverso quel “contingente alfa”, che ho sempre creduto di inseguire in sogno, nella illusione metafisica.

Sempre l’ho inseguito: su quel locomotore, dalla fanciullezza alla malattia di oggi.

Questa è la mia sensazione. E’ la morte?

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